venerdì 22 ottobre 2010

Il Gioco del Ponte

Storia del Gioco del Ponte

IL MAZZASCUDO


Nel medioevo la Repubblica Pisana, istituì un gioco, (comune ad altre città italiane) per tenere lontani dagli ozi gli uomini e addestrare i giovani  alla guerra; per dar dalla Città perpetuo bando all’ozio tale cimento guerresco era chiamato Gioco del Mazzascudo e si svolgeva in piazza delle Sette Vie o degli Anziani (oggi dei Cavalieri).
Dopo sfide individuali avveniva lo scontro tra le due Fazioni della Città: il Gallo e la Gazza, che rappresentavano rispettivamente la parte della Città situata a nord dell’Arno e quella a sud, dette Fazioni erano formate da diverse Compagnie, che talvolta erano anche le Società d’Armi cittadine (Societates Armorum).
I Combattenti portavano elmo e corazza, gli elmi muniti di visiera, e tessuti esternamente da vimini, erano di colore dorè per il Gallo, e di colore rosso o vermiglio per la Gazza, detti elmi erano chiamati ceste.
I Combattenti erano vestiti di corazza, gambiere e cosciali, sopra indossavano una divisa con i colori della propria Compagnia, i Combattenti imbracciavano uno scudo oblungo che terminava appuntito nella parte bassa, e si colpivano con una mazza di legno, lo scopo del gioco consisteva nel conquistare una parte di territorio nemico, facendo indietreggiare la Fazione avversaria.
Le prime notizie di questo gioco si hanno nel 1168 quando pare, secondo Maragone, che si disputò sul fiume Arno che era ghiacciato, e ancora il 4 ottobre 1264 avendo i pisani devastato la campagna lucchese fino alle porte della Città, i pisani giocarono al Mazzascudo sotto le mura di Lucca per schernire i lucchesi.
Nel 1318 negli statuti pisani per la Sardegna si legge che: et siano tenuti li dicti consuli per sacramento e per pena di livre XXV di Pisani che quando elli vedesseno o sentisseno che in del dicto Castello di Castro si volesse giocare o combattere a Massaschudo incontenente ellino con quelli Cittadini che parra loro andranno alli Castellani e operare alloro potere che quello giuoco o battaglia no si faccia in alcun modo.
Nel 1355 si giocò di nuovo sull’Arno ghiacciato, un anonimo ci dice che: fecervisi suso li fuochi e giocovvinsi alle braccia e al mazascudo Questo gioco ci viene descritto in un poemetto in ottave dell’inizio del quattrocento, chiamato Il Giocho del MassaSchudo nel quale si descrive minuziosamente in 44 stanze, come veniva e da chi era disputato il Gioco del Mazzascudo. E chom gran forsa choli schudi urtare e e que’ ch’eschon fuora dal cerchio son perdenti.

Questo gioco venne proibito con la “conquista” della Città da parte dei fiorentini, avvenuta nel 1406, difatti l’Arrosti ci dice che: andò il bando che ciascheduno pisano cittadino pena l’havere, e la persona dovessi portare al palazzo maggiore ogni arme offensiva e difensiva insino all’arme che si giuocava al Mazza e Scudo.

ANNO 1406

LA FINE DELLA REPUBBLICA PISANA


Iniziò con il 9 ottobre una delle più dure dominazioni della storia d’Italia, i pisani furono costretti ad emigrare in altri stati italiani o all’estero, soprattutto in Francia e in Catalogna, altri si rifugiarono nel vicino contado, un migliaio vennero deportati  a Firenze nei campi di prigionia.
Firenze tramite soprusi e angherie costrinse centinaia di importanti famiglie ad abbandonare Pisa, la popolazione passò nel giro di alcuni anni, da circa 40.000 abitanti a 7468, coloro che riuscirono a rimanere, furono portati alla povertà da tasse insostenibili, le loro case e i loro beni vennero distrutti o bruciati.
Vennero vietate le Arti, impedita la mercatura e la navigazione, il processo di interramento del porto pisano continuò inesorabile per la mancanza di lavori di manutenzione idrica, una volta ottemperati dalla ormai disciolta Magistratura delle Acque. 
I fiorentini favorirono l’insediamento a Pisa di nuovi abitanti, per lo più toscani e fiorentini, si pensi che il 40 % dei bambini battezzati a Pisa fra il 1457 e il 1494 avevano genitori che non erano nati a Pisa, ma che vi si erano trasferiti, la cosiddetta denazionalizzazione stava dando i primi frutti.
A quei pochissimi pisani che riuscirono a rimanere in Città e nel contado, non  rimase  quasi altro che coltivare la terra come mezzadri o distruggere le proprie case per non pagare così più le tasse e per rivendere le pietre delle loro case come materiale da costruzione.
Altro aspetto importante fu il cambiamento urbanistico e architettonico della Città

LA SECONDA REPUBBLICA PISANA


La miracolosa ribellione pisana, del periodo 1494 – 1509 costrinse Firenze a fare marcia indietro e rivedere i suoi metodi, adesso un po’ più favorevoli nei confronti della Città e del Contado di Pisa; purtroppo in questa guerra andarono distrutte la maggior parte delle fortificazioni militari pisane e gran parte dell’arredo urbano.
Tanti pisani se ne andarono, preferendo ire sparsi per lo mundo prima di soggiacere a Firenze, a tal proposito Pietro Galletti e suo figlio Gherardo, abbandonarono Pisa per raggiungere quei pisani che si erano trasferiti in Sicilia dopo il 1406, ma prima di andarsene fecero pelare un gallo e lo appesero alla loro finestra, unendovi il seguente epigramma: chi non farà siccome ho fatto io, farà la fine del gallo mio.
Ma anche la Repubblica Fiorentina, indebolita da questa guerra, trovò la sua fine nel 1530 grazie all’avvento al potere della famiglia fiorentina dei Medici, che dettero vita al Granducato di Toscana.

LA NASCITA DEL GIOCO


Con l’avvento dei Medici cominciò allora, insieme alla nascita del Gioco, anche la lenta rinascita di Pisa, con Cosimo I che prometteva esenzioni fiscali e immunità giudiziarie a chi fosse venuto ad abitare a Pisa, Livorno, e loro contadi, molte famiglie pisane tornarono e riebbero la cittadinanza, insieme ad altre famiglie del contado, ma altre famiglie vennero dalla Toscana, da altre regioni italiane e da altri stati europei, addirittura le più importanti famiglie fiorentine ambiranno a svolgere mansioni pubbliche in Pisa, in particolare alla carica del Commissariato della Città, definita da loro stessi Città sopra tutte la più bella Pisa seppure sconfitta dai fiorentini, li avvinse, a tal punto che, per definirla scrissero : Aspice Pisas super omnes speciosa.
Nel 1543 venne rafforzata l’Università, come già aveva fatto Lorenzo il Magnifico nel 1472, e nel 1547 venne creato l’Ufficio dei Fiumi e Fossi, quale rielaborazione dell’antica Magistratura delle Acque, inoltre nel 1591 fu creato l’Orto Botanico, nel 1548 Pisa diventò sede dell’Arsenale, e a tal proposito nel 1562 venne fondato l’Ordine Marinaro dei Cavalieri di Santo Stefano, che trovò la sua sede, nell’antico cuore politico della Città, ovvero in piazza delle Sette Vie.
Questa piazza come gran parte della Città medievale, venne stravolta, e assurse a piazza celebrativa dell’Ordine marinaro; l’antico palazzo degli Anziani diventò il palazzo della carovana, le sue torri vennero dimezzate, la facciata in pietra venne intonacata, le finestre e gli archi vennero chiusi.
Stessa sorte toccò agli altri edifici della piazza e alla chiesa di San Sebastiano alle fabbriche Maggiori, appartenente fin dal 1074 ai Lanfranchi, il campanile venne distrutto, la facciata venne stravolta totalmente.
Peggior sorte toccò alle due torri delle Sette Vie (antica casa torre) e la torre della Muda, dove venivano allevate le aquile, simbolo del Comune e dell’alleanza con gli Svevi, questa torre è nota anche con il nome della Fame, perché vi venne rinchiuso il Capitano del Popolo Ugolino Della Gherardesca, insieme ai figli e ai nipoti, accusato nel 1288 di aver tradito la Repubblica nel 1284, nella battaglia navale all’isola della Meloria contro Genova; ebbene dall’accorpamento della torre della Muda e dalla casa torre delle Sette Vie, nacque il palazzo dell’orologio.
I pisani si sa, mal digeriscono e mal digerivano i fiorentini, e allora Cosimo I con l’Ordine dei Cavalieri consentì in parte ai pisani, di tornare a combattere sul mare, infatti le coste tirreniche e toscane erano infestate da pirati e dai turchi; Cosimo I confidò nell’animo guerriero e nell’orgoglio marinaro dei pisani ancora presenti a Pisa, investendoli di un grande compito: difendere le coste tirreniche e toscane.
I Cavalieri pisani furono capaci per cento anni, da Lepanto a Negroponte di contrastare i turchi e i pirati, fino a quando i Lorena nel 1750 soppressero l’Ordine, che era allo sfascio già da diversi anni, oggi nella chiesa dei Cavalieri è possibile ammirare le bandiere e le fiamme rubate dai pisani ai turchi nella battaglia di Lepanto del 7 ottobre 1571.
Nel 1568 per volontà dei Medici nasce un nuovo gioco: il Gioco del Ponte, quale rielaborazione ludica dell’antico Gioco del Mazzascudo, le analogie tra questi due giochi non mancano, difatti anche in questo nuovo gioco si combatterà tra armati a piedi muniti di targone.
Il targone era di pioppo o gattice, per la Battaglia, e di tiglio per la Mostra, questa arma altro non era che la fusione tra la Mazza e lo Scudo, potendo servire come arma d’attacco e da difesa, era di forma allungata, lungo poco più di un metro (108 cm) e largo circa 22 cm. andando a terminare nella parte finale dove era largo 6 cm. sul dietro del targone erano fissate due maniglie o manici, con le quali si impugnava l’arma, che non doveva mai essere usata a braccio sciolto come una mazza, o scagliata addosso ai rivali.
Il targone il cui uso è testimoniato fin dalla seconda metà del cinquecento, è un residuo della tradizione armigera medievale, difatti possiamo considerare le targa l’antenato del targone.
Le targhe facevano parte dell’armamento delle Compagnie del Popolo, all’inizio del XIV secolo (Canestrini 1851 p. XVI) erano di legno e generalmente venivano rivestite con pelli di cavallo o asino; lo Herlihy cita due contratti della fine del ‘200 con i quali Carlo d’Angiò, ordinava 4000 targhe ai pisani (Herlihy 1958 pag.144)
I Medici nel 1635 approvarono che si rifacesse un’altra antica tradizione pisana: la Regata, che prese nome di Palio delle acque o delle fregate, quale rielaborazione delle antiche regate dell’epoca della Repubblica Pisana, di cui si ha notizia fin dall’anno 1292, e che vennero abolite nel 1406.
I pisani non dimenticarono mai il Palio delle fregate, infatti venne disputato un’altra volta nel 1495, nel periodo della Seconda Repubblica Pisana, (1494-1509) Palio, che nel 1718 diventerà l’odierna Regata di San Ranieri; altro gioco seicentesco era il Palio dei cavalli, ma questo scomparve ben presto.
Qualcuno ha detto che il Gioco del Ponte non ha niente a che vedere con il Mazzascudo, perché dal 1406 al 1568 sono troppi, gli anni trascorsi perché qualcuno si potesse ricordare del Mazzascudo, ma in una lettera datata 19 maggio 1452 scritta da Giovanni di Jacopo di Talano, ci parla di come avveniva il Gioco del Mazzascudo, ancora una volta con un poemetto scritto in ottave, segno che a metà quattrocento i pisani si ricordavano ancora del loro Gioco.
Da tenere presente che dal 1494 al 1509 Pisa e gran parte del suo contado tornarono liberi, e in questo periodo si ha notizia di una Regata in Arno, (1495) segno che i pisani di fine quattrocento non avevano dimenticato l’usanza medievale di disputare regate in Arno, perché mai allora avrebbero dovuto dimenticarsi del Mazzascudo?
La voglia di tornare ad essere una Repubblica indipendente e al tempo stesso il bisogno di far vivere la propria identità con le proprie tradizioni (lingua, Mazzascudo, Regate, cultura marinara, rapporti socio culturali tra famiglie ecc.) andarono quindi di pari passo, difatti nel 1530 Francesco Ferrucci minacciò d’impiccare i più facoltosi cittadini e di privare la Città di vettovaglie, qualora non avessero versato denaro per pagare l’esercito che doveva salvare Firenze dalle truppe imperiali.
I pisani non cacciarono fuori una lira, anzi, poco tempo prima era stata scoperta una congiura per ribellarsi a Firenze, congiura che costò la vita a Jacopo Corsi, Capitano del Governo, Ferrucci si allontanò da Pisa e morì due giorni dopo, il 3 agosto, Firenze cadde, e la Repubblica Fiorentina tramontò per sempre, i Medici diventarono i nuovi padroni, e Alessandro I venne accolto dai pisani come Salvatore di Pisa, segno che la Città nel 1530, voleva ancora la libertà da Firenze.
Negli anni successivi li offizi della Città di Pisa esercitati da pisani soli, erano pochi e di pochissima autorità la Città era ancora in mano ai fiorentini, con ovvio malcontento dei pisani, ne è una prova quando, nel 1538 la Compagnia dello Spirito Santo, organizzò una processione di protesta, con gli stemmi dell’antica Repubblica Pisana, ancora una volta i pisani fanno riferimento alla loro antica Repubblica, che nel lontano 1406 era caduta per la prima volta sotto il dominio fiorentino.
I pisani dunque avevano buona memoria e quindi è probabile che si ricordassero anche del Mazzascudo, e forse se ne ricordarono anche trent’anni più tardi quando si ha notizia che giocarono al Ponte.
Ma anche qui attenzione! della Battaglia del 1568 si dice che: Addì 22 febbraio 1568 si giocò al Ponte e a forza di sassate la vittoria fu dei Cavalieri di Mezzo Giorno; si da quindi per scontato che si sapesse cosa volesse dire che si Giocava al Ponte, segno che era almeno da qualche anno, diventata consuetudine, o che comunque non fosse la prima Battaglia, altrimenti l’autore avrebbe potuto scrivere, con questo anno si da inizio ad un nuovo gioco ecc. ecc. quindi se non fosse stata la prima Battaglia, la distanza tra Ponte e Mazzascudo si ridurrebbe ulteriormente.
Nel 1574 il Commissario della Città, il fiorentino Giovan Battista Tedaldi, scriveva che: i pisani sono alteri perseverando sempre con l’animo nelle grandezze et ricchezze et superbia della loro antichità; mentre Michel de Montaigne agli inizi degli anni ’80 scriveva che: i pisani sono fieri ed intrattabili e poco educati verso gli stranieri.
Questi commenti sembrano identici a quelli fatti dal fiorentino Pietro Vaglienti, diversi anni prima, che in un suo diario nel 1494 scriveva: “portammo gran pericolo di non esser in quella notte tutti tagliati a pezzi, perché li pisani v’erano di buona voglia a questo volere fare” ; e ancora nel 1505,”i pisani sono superbi e di mala natura e per mantenere la libertà faranno ogni cosa di tenersi” e il Priuli nel 1500 definiva i pisani la gloria et l’honor de li italiani.
Tutti questi commenti sono identici a quelli fatti ancora prima, sui pisani del medioevo da Dante Alighieri, quando definiva i pisani delle volpi piene di froda che non temono ingegni che le occupi, cioè volpi capaci di sfuggire a qualsiasi trappola; se non bastasse possiamo citare i famosi detti a nanna che arrivano i pisani, meglio un morto in casa che un pisano all’uscio e Pisa Vituperio delle genti; siete ancora convinti che quei pochi pisani rimasti a Pisa a metà cinquecento, avessero perso il loro spirito indomito o che si fossero dimenticati della propria storia e del Mazzascudo?
Anche la Regata dal 1406 è stata ridisputata nel 1495 ed infine è ripresa nel 1635, cioè dopo 140 anni dal 1495, la distanza tra Mazzascudo e Ponte è maggiore perché dal 1406 al 1568, anno in cui si pensa che sia iniziato il Gioco del Ponte, ci sono 162 anni, il divario quindi tra Mazzascudo e Ponte è maggiore tra le varie Regate dell’Arno, di soli 22 anni! e comunque a scanso di equivoci, anche dall’interruzione definitiva del 1807 alla ripresa del Gioco nel 1935 ci sono ben 128 anni.  
La prova schiacciante che la memoria del Mazzascudo sopravvisse nei pisani e che il Gioco del Ponte derivi in un certo qual modo dal Mazzascudo, ci viene dal Borghi, che nella sua Oplomachia Pisana del 1713 alle pagg. 127 e 128 ci dice che nel Gioco del Ponte, i Capitani portavano la Mazza e lo Scudo durante la Marcia delle Armate, con Mazza e Scudo nelle mani e ciò in memoria dell’antico Giuoco di Mazza e Scudo, continuando così la tradizione del Mazzascudo dove i Capitani portavano la mazza, inoltre sempre nel gioco del Ponte, i Paggi portavano targa e scudo, mentre i Celatini portavano targa e rotella.
Nel 1696 un poeta anonimo scriveva che i governanti della Repubblica avevano istituito il Mazzascudo Ne’ secoli trascorsi allora quando; facea Pisa tremar l’acqua e la terra; per dar dalla Città perpetuo bando; all’ozio che l’umana gloria atterra; andarono i politici inventando; un giuoco il quale avea forma di guerra; e ancora nel 1761 in una pubblicazione per celebrare la vittoria di Tramontana, si riportano le immagini di un gallo e di una gazza, in atto di fronteggiarsi.
Ecco quindi sfatati i dubbi di quei pochissimi studiosi e appassionati del Gioco che asseriscono che il Gioco del Ponte non ha niente in comune col Mazzascudo, e che i pisani del cinquecento avevano perso la memoria del Mazzascudo; difatti lo scontro tra gli armati era simile, la finalità del gioco praticamente identica, il tempo in cui si praticavano i due giochi era quasi sempre il Carnevale, in entrambi i giochi, vi partecipavano la parte a nord e quella a sud dell’Arno, ognuna composta da più Compagnie, inoltre spesso ci furono pure gli stessi criteri di denominazione delle Compagnie.
I contrari ci dicono che il Mazzascudo non si svolgeva sul ponte, ma come abbiamo già detto, nei primi anni del Gioco del Ponte, piazza delle Sette Vie era in trasformazione, e i lavori durarono per decenni, rendendo impraticabile la piazza per qualsiasi tipo di festa cittadina.
Di nuovo i contrari asseriscono che le armi erano due nel Mazzascudo e una per il Ponte; ma un poeta anonimo così scriveva del Mazzascudo nell’anno 1696: Chi vuol nel guocho bei signori entrare; chonvien che vada per tal guiza armato; buona chorassa ghambiere e chosciale; elelmo intesta fortemente alaciato; el forte schudo li con viene imbracciare; che giusto infine interra e appuntato; e dala destra mano porta un bastone; chonun ghuanto atacchato perragione; da questo si deduce che qualcuno aveva ancora memoria del Mazzascudo nel 1696 e che lo scudo aveva forma simile all’attuale targone, difatti si dice che era infine interra e appuntato.
Il Cervoni nel 1589 ci dice che: Lorenzo de’Medici che introdusse le targhe in cambio degli scudi, e di poi il Signor Giovanni fece cambiar le targhe in targoni, in quella foggia, che a tempi nostri si veggiono; e queste s’usano a la Battaglia del Ponte.
Nondimeno i pisani, per ritener la memoria de l’antico uso del Mazzascudo, usano che hoggi i Capitani, e qualche altro uffiziale combattono con lo scudo e col bastone, e questo come abbiamo già detto è confermato dal Borghi nel 1700, nella sua Oplomachia Pisana stampata poi nel 1713, perché all’Autore morì la moglie agli inizi del secolo e quindi la pubblicazione venne posticipata.
Altra analogia tra i due giochi, furono gli elmi utilizzati nella Battaglia, difatti sia nel medioevo con il Mazzascudo, che nel seicento con il Ponte, gli elmi muniti di visiera, furono dorati per la Parte a nord dell’Arno e rossi per la Parte a sud, inoltre in entrambi i giochi, alcuni tipi di Combattenti portavano le celate in testa.
Tornando al Gioco del Ponte, esso si disputava tra la Parte della Città situata a nord dell’Arno e quella a sud, (come era nel Mazzascudo per il Gallo e la Gazza) chiamate dapprima Borgo e Banchi, e in seguito Tramontana e Mezzogiorno, così come nel Mazzascudo le Società d’Armi andavano a formare le due Fazioni, nel Gioco del Ponte, le Compagnie formavano le due Parti o Fazioni.
Lo scopo del Mazzascudo era quello di far indietreggiare la Fazione avversa, a tal proposito Virgilio Salvestrini nel suo libro “Il Gioco del Ponte” del 1935 scriveva che: Il Gioco aveva luogo sulla Piazza degli Anziani, ora dei Cavalieri, la cui parte centrale era delimitata da un cerchio di catene con due opposte aperture, due bocche, per permettere ai Combattenti l’entrata.
Difatti il poeta anonimo del 1696 così scriveva: e que che schon fuora del cierchio son perdenti e rimanghon dentro que che son vincienti.
Lo scopo del Gioco del Ponte era quello di far indietreggiare il nemico e di portare lo scontro oltre la mezzeria del Ponte (Ultra Dimidium) come nel Mazzascudo era quello di far ritirare il nemico conquistando una parte del suo territorio.
Lo scontro avveniva sul Ponte Vecchio, (odierno Ponte di Mezzo) e non più in Piazza delle Sette Vie, come avveniva per il Mazzascudo, probabilmente perché portando la Battaglia sul Ponte, tale cimento guerresco risultò più spettacolare e fu più controllabile da parte dei Granduchi, qualora ci fosse stato bisogno di sedare disordini che sarebbero potuti sfociare in una rivolta popolare, difatti la prima Battaglia di cui si ha notizia (22 febbraio 1568) fu vinta da Mezzogiorno a forza di sassate.
Sempre in quegli anni (1565) il Granduca Cosimo I fece fare una lista di 727 pisani della Città e del contado, che discendevano da quei patrioti che avevano fatto tornare indipendente la Repubblica Pisana dal novembre del 1494 fino al giugno del 1509, c’era quindi da parte dei Medici  preoccupazione a far disputare una finta Battaglia in Piazza dei Cavalieri, che all’epoca era chiamata Piazza delle Sette Vie, forse fu deciso di spostare la Battaglia sul Ponte di Mezzo proprio perché vi erano sette vie che confluivano nella piazza e anche perché la piazza, come abbiamo già detto, era all’epoca un cantiere aperto, inutilizzabile quindi per un gioco pubblico, difatti fu proprio in quel periodo che i Medici trasformarono la Piazza delle Sette Vie, in Piazza dei Cavalieri.
Cosimo I per avere il consenso popolare credeva che bisognava ridare ai popoli toscani i loro antichi giochi medievali (panem et circense) come per il Mazzascudo, il Gioco aveva anche un’altra funzione: preparare gli uomini a combattere, in questo caso non più per la Repubblica Pisana ma per l’Ordine dei Cavalieri di Santo Stefano.
La Battaglia sul Ponte, ricordava molto l’assalto ad un ponte di una nave, dove i Cavalieri pisani dovevano respingere i nemici, e possibilmente fare un buon numero di prigionieri, osservando scrupolosamente gli ordini dei Capitani delle galee, difatti anche se le armi da fuoco erano già largamente diffuse, queste venivano usate solo quando le due navi erano vicine, inoltre la lentezza di ricaricamento delle armi, nonché il loro difficile uso, imponevano che una volta spronata una nave nemica, che qui si combattesse con truppe di soldati ben guidati dai Capitani delle galee, in un continuo combattimento dove si doveva respingere il nemico e conquistare la sua nave.
L’Ordine quindi, aveva tutto l’interesse che il Gioco si svolgesse, e questo perché era un’occasione per osservare i Capitani e i Combattenti che poi sarebbero potuti servire durante le battaglie per mare e per terra, difatti i momenti di massimo splendore per il Gioco e per l’Ordine coincidono; spesso i Capitani delle galee furono anche Capitani Generali o Capitani delle Compagnie nel Gioco, oppure i Cavalieri dell’Ordine furono anche Deputati o Armatori nel Gioco.
La nobiltà pisana di origine repubblicana, era spesso al comando dell’Ordine e del Gioco, come lo era al tempo della Repubblica, nell’armamento marittimo e nel Mazzascudo, difatti troviamo contemporaneamente al comando del Gioco e dell’Ordine le seguenti famiglie pisane: Lanfranchi (con 26 Cavalieri nell’Ordine) Gaetani (6) Della Seta (8) Da Scorno (5) Rosselmini (21) Franceschi Galletti (16) Del Torto (2) Upezzinghi (2) Ruschi (7) Agostini (13).
Come si vede la maggior parte di queste famiglie ricoprivano ruoli importanti nella Repubblica Pisana, l’accostamento quindi non fu casuale, anzi esso aveva triplice funzione: 1) coinvolgere la nobiltà pisana e il popolo, che mal sopportavano la perdita della libertà, in un gioco che ricordava il Mazzascudo e quindi il periodo repubblicano 2) fedeltà al Granduca e alla sua Corte 3) come abbiamo già detto, preparare gli uomini per combattere per l’Ordine dei Cavalieri di Santo Stefano.
Va detto che all’inizio il Gioco del Ponte derivò dalla Battaglia con i sassi che si svolgeva a Firenze, dove questo gioco fu regolamentato negli anni 60 del cinquecento da Cosimo I, la Battaglia con i sassi si svolgeva con modalità simili al Gioco del Ponte, difatti le Potenze (Squadre) si dividevano in schiere e combattevano l’una contro l’altra, e quando una schiera si ritirava, subito un’altra subentrava al suo posto; gli uomini poi si coprivano il capo con la Celata, e si coprivano con dei cartoni gli stinchi e il petto.
L’usanza di armarsi con i sassi venne proibita il 18 giugno 1577, purtroppo non sappiamo come avvennero le due Battaglie del Gioco del Ponte del 1569 e del 1574, ma è certo che dopo il 1577 è assente ogni riferimento ai sassi come armi offensive nel Gioco del Ponte.
E’ probabile che il Gioco del Ponte abbia avuto inizio intorno agli anni 60, durante i quali, i soggiorni in Pisa di Cosimo I furono sempre più frequenti, gli stessi anni in cui il Granduca regolamentò alcuni giochi pubblici come il Calcio Fiorentino.
E’ possibile che dopo avere proibito la Battaglia con i sassi, il Granduca abbia regolamentato anche il Gioco del Ponte prendendo spunto dal Gioco del Mazzascudo, facendo diventare il Gioco del Ponte meno violento della Battaglia con i sassi di Firenze, e ricollegandolo al Mazzascudo per meglio adattarlo alla realtà pisana.
Il bisogno di conservare la memoria e allo stesso tempo quello di trasformarla in qualcosa di concreto e di partecipato, portò probabilmente alla nascita del Gioco del Ponte, che divenne elemento di unione tra cultura pisana e cultura medicea; la continuità con il Mazzascudo fu l'elemento di unione necessario per giustificare il nuovo Gioco.
Il Gioco del Ponte, se fosse stato un nuovo gioco, forse sarebbe potuto restare estraneo al contesto della cultura soggetta, viene così ad assumere i requisiti che ne favoriscono l’innesto e il radicamento; difatti troviamo negli ultimi anni del cinquecento e per tutto il seicento, armatori tra le famiglie pisane che erano rimaste in Città dal tempo della Repubblica Pisana (Campiglia, Ceuli, Da Cascina, Da Scorno, Della Chiostra, Della Seta, Gaetani, Lanfranchi, Mosca, Rosselmini, ecc.)
Ne è una prova la Battaglia fatta per celebrare l’ingresso in Città, di Cristina di Lorena, il 26 Aprile 1589, per questa principessa allevata nel mezo dell’armi, una Battaglia del Ponte fu ordinata e messa ad effetto con tanta pompa, e splendore, quanta non si vedde giammai in questa città (Cervoni, 1589, pag.27).
La preparazione di questa Battaglia rivela un conflitto fra l’apparato celebrativo di gestione medicea e le competenze organizzative che la nobiltà locale si attribuiva; difatti le accoglienze che Pisa tributò alla nuova Granduchessa furono enormi per una Città che solo l’anno prima aveva dovuto limitare le proprie spese per accogliere il Granduca. Ferdinando in previsione dell’ingresso della sposa aveva lasciato intendere ai pisani che per allora si contentava che la Comunità…non facesse spesa veruna publica; ma che solo si contentava di una Battaglia di Ponte (Cervoni pag.32) i danari del Granduca per l’organizzazione della Battaglia vennero rifiutati e i pisani si risolverono a fare a tutte loro spese ciascheduno la sua squadra.
Nell’elenco degli Armatori fornito dal Cervoni, compaiono quasi esclusivamente nomi di antiche famiglie pisane, i pisani erano pure, per la maggior parte, i Capitani delle varie Compagnie, segno che i pisani non volevano intromissioni nel loro Gioco.
Curioso il fatto che a guidare la nona Compagnia di Tramontana, ci sia un calcesano: Ludovico Della Chiostra, discendente di quei Della Chiostra che avevano partecipato attivamente alla ribellione contro Firenze (1494-1509) questo calcesano guidò la sua Compagnia lungo la spalletta di levante, laddove Calci combatterà come Affronto dal 1604 al 1807.
Altra curiosità, nella Battaglia Generale del 1589, nella Parte di Borgo, Jacopo Galletti, di antica famiglia pisana, armò e guidò una Compagnia, nella cui insegna vi era un’aquila nera con il motto Verus Amor; altra Compagnia fu armata da Orazio Lanfranchi e guidata da Fabio Agostini, nella cui insegna vi si trovavano tre aquilotti; un’altra era armata e condotta da Pietro Della Seta, e nell’insegna vi era un’Aquila bianca, che posava la zampa destra sopra una palla turchina, e la sinistra sopra un giglio bianco, col Motto Evexit ad aethera virtus.
Sempre nella stessa Battaglia, dalla Parte di Banchi, una Compagnia aveva come insegna l’arme ducale impressa nel corpo del sole, che da tutte le bande la cingeva di raggi, con un’Aquila sotto, che riguardava quel sole col motto nec minus milites; questo ci fa capire come l’Aquila, antico simbolo di Pisa ghibellina, fosse ancora presente nei pisani attraverso la complicata simbologia del Gioco, espressa nelle imprese e nei motti.
La struttura del Gioco appare già consolidata, presentandosi con elementi destinati a ripetersi, come la Mostra o Marcia delle Truppe e i Cartelli di Disfida, ogni Compagnia appare fortemente individualizzata per l’elemento dell’invenzione che la caratterizza, ma nella Battaglia vera e propria, le Compagnie si organizzano anonimamente nelle due Fazioni conservando delle peculiarità unicamente tattiche, e dove lo scontro si realizza secondo modalità che diverranno tradizionali.
Il Gioco diventa così per le famiglie nobili pisane, memoria storica del glorioso passato dell'antica Repubblica, e soprattutto un momento di vero governo pisano sulla popolazione, governo, che nel Gioco, viveva e diventava parallelo e alternativo a quello mediceo di tutti i giorni.
Il Gioco si radica così nella vita cittadina con un quasi totale coinvolgimento degli uomini validi, per lo più artigiani e abitanti del contado, reclutati militarmente dagli Armatori locali che contribuivano con il loro denaro ad allestire le varie Compagnie. Significativo a tal proposito, è un documento di un testamento di Cosimo Viviani che nel 1595 lascia a suo nipote, diversi morioni, targoni e insegne per disputare le Battaglie Generali.
I targoni, le armature, le camiciole, le insegne, i colori delle Compagnie, i ruoli (elenchi) dei partecipanti vengono ad essere codificati in modo sempre più preciso, come pure le cerimonie introduttive alla Battaglia, nonché le impostature e le tattiche per la Battaglia, difatti sono del 1599 i primi Capitoli che descrivono le regole da seguire durante il Gioco.
Nel seicento nel giorno di Sant’Antonio Abate, il 17 Gennaio, comparve l’usanza di effettuare, con le stesse modalità, una Battagliuccia o Battaglia dei ragazzi, dai 15 ai 18 anni, i quali venivano istruiti nelle regole del Gioco dai Combattenti veterani.
I giovani giudicati più valorosi venivano poi prescelti per partecipare alla Battaglia Generale; ricordiamoci che Battagliaccia è dizione sbagliata, come Federico Bonucci ci dice nel suo, Per un Gioco migliore del 1998, e come si evince dall’errata corrige dell’Oplomachia Pisana del Borghi.
L’esistenza dei veterani e di una vera e propria forma di reclutamento manifesta in modo chiaro il carattere istituzionale assunto dal Gioco, la Città e il Contado sembrano, nella testimonianza del Borghi, vivere nel Gioco. La gara delle predette Fazioni giunge a maggior segno, perché i pisani sono in essa generati, allevati, ed istruiti: chiunque e dall’intendere, che i piccoli fanciulli in quei giorni, che sono interposti dalla disfida alla battaglia, con pugni, con calci, con morsi, con sassi, e simili si percuotono e malamente si trattino per il Viva del loro partito, potrà argomentarne la qualità della passione degli adulti e degli uomini, dalla quale non vanno esenti né meno le donne medesime.
Nelle Battaglie degli anni 1602-1617, le due Parti sono indicate in genere come a Nord di San Nicola e a Sud del Commissario, o anche Santa Maria e Sant’Antonio, o Borgo e Banchi, si ha così il passaggio dalle definizioni di invenzione cinquecentesche, che per lo più si riportavano alla mitologia o ai costumi indossati, a quelle dal quartiere o dalle zone di appartenenza, come Santa Maria, San Michele, Calcesana, Val di Calci (presente già dal 1604) per Tramontana, e per Mezzogiorno, San Martino, San Marco, Sanantonio e Cascina, questo fa capire quanto il Gioco, in questo periodo, si innesti in modo netto nel tessuto urbano.
Della Battaglia del 1618 si conoscono i Cartelli di Disfida, e i nomi delle Compagnie: 11 a Tramontana e 9 a Mezzogiorno, queste le Compagnie della Battaglia del 1618, Tramontana: squadra delli stafieri et uomini di corte di S.A.S.; squadra de' Satiri del Signor Priore Angeli; squadra de' pescatori del Cavalier Palmerini; squadra de' Mataccini vecchi del Cavaliere del Carretto, squadra de' Mataccini nuovi del Rossermini; squadra di via Santa Maria del Cascina; squadra di Calcesana del Seta; squadra di San Michele di Nicolaio Magona; squadra de' Pelosi; squadra di contadini della Serenissima Arciduchessa, squadra di Val di Calci di Salvadore Lupetti; per un totale di 438 uomini.
Mezzogiorno: San Martino, Monna Sandra, Lioni, San Marcho, Sanantonio, Coiai, Giganti, Cascina, del cavaliere Campillia, (Campiglia) Pupilli di Davitte staderaio del Signore Moscha; per un totale di 323 uomini.
La Battaglia Generale del 27 febbraio 1623, fu disputata dalle seguenti Compagnie: Tramontana: Calcesana di colore gialli e neri; Contadini di San Michele; Santa Maria turchini; Pelosi guidati dall'alfiere della Banda; Mattaccini; Guastatori; Calci, neri con morte; San Maseo; Satiri
; per un totale di 345 uomini; e per Mezzogiorno: Lioni; Santo Antonio; Riglioni; Fulmini; San Martino; Quoiai; San Bastiano; Monna Sandra vestita dal signor Principe don Lorenzo; San Marcho guidata dal Cavalier Moscha; il Signor Ceuli gente spezzata; per un totale di 346 uomini.
Ad ogni Compagnia veniva assegnato un simbolo (l’Impresa) e un motto, che potevano cambiare di anno in anno, è del 1623 il primo motto della Fazione di Mezzogiorno, pervenuto sino a noi: Robur et Celeritas, ecco che si hanno nomi di fantasia animale, come i Dragoni, i Leoni, i Delfini, così come nel Mazzascudo vi erano il Leone Imperiale, il Dragone, il Cervo nero, il Cervo bianco, il Granchio, il Liocorno ecc. vi erano poi Compagnie riconducibili ai mestieri di chi le componeva o le armava, Contadini, Pescatori, Coiai, come nel Mazzascudo vi erano i Vinai, Fornai, Coiai.
Infine vi erano nomi che facevano intendere il carattere dei Combattenti della Squadra o dell’Affronto, abbiamo quindi i Mattaccini, i Satiri, i Pelosi, i Persiani, i Guastatori, così come vi erano nel Mazzascudo i Sanguigni, l’Uomo Selvatico, l’Allegra Donna, il Saracino, il Ribaldo.
Dal diario di Cesare Tinghi, continuato dopo la morte dell’autore da un anonimo compilatore, si evince come il Gioco del Ponte fosse un avvenimento abituale dei festeggiamenti che, nel corso del Carnevale allietavano il soggiorno della corte a Pisa. Il Gioco si inseriva ogni volta in contesti festivi di particolare ricchezza, in cui si alternavano un palio per acqua e per terra, giostre, tornei e sbarre in piazza, feste da ballo e commedie a Palazzo e nella Sala dei Consoli del Mare.
Membri della famiglia Granducale prendevano a volte il comando di una delle due Fazioni (nel 1604 troviamo come Capitani Generali Don Cosimo Medici e Don Antonio Medici, nel 1605 ancora Don Cosimo Medici, nel 1606 Francesco Medici e nel 1618 Don Lorenzo Medici); ruoli di comando venivano pure affidati a personaggi inseriti nell’apparato militare mediceo (Capitani di Galera, Capitani della Guardia, Capitani dei Cavalli) ma soprattutto ai rappresentanti dell’aristocrazia pisana.
Questa compartecipazione al Gioco di esponenti dell’ambiente mediceo e di nobili locali riguardava anche l’aspetto finanziario, Cristina di Lorena prima, e Maria Maddalena d’Austria dopo, erano solite armare una o più Compagnie dalla Parte del Palazzo.  
Nel seicento, la Battaglia si svolse quasi annualmente, salvo interruzioni dovute alla peste dal 1630 al 1633 e al crollo del Ponte Vecchio, che avvenuto il 9 gennaio 1637, costringerà i pisani ad una pausa forzata, come ci racconta il pisano Navarretti nelle sue memorie: nell’anno 1647 ritrovandosi al solito trattenimento sotto le sette colonne i cav. Alfonso Gualandi, Camillo Campiglia, Pietro Cascina, Francesco Agostini, Mario del Mosca e Giovanni Navarretti, i quali facendo lungo discorso sulla perdita di questo Gioco, o festa di quella qualità, che al mondo una festa particolare d’una città, non ve ne altra che la pareggi.
Navarretti costruì un ponte in legno per fare il Gioco in via dei Setaioli, l’odierno tratto di Lungarno da Piazza Garibaldi a Piazza della Berlina, fu così che si rigiocò al Ponte fino al 1659, anno in cui il Ponte Vecchio venne ricostruito, e il Gioco tornò a disputarsi sul Ponte nel 1661.
Nella metà del seicento verranno codificati i modi di combattere e i nomi delle Compagnie, che saranno sei per Fazione, il Gioco durava fino a due ore e dal 1650 al 1685 durava un’ora, mentre dal 1686 si stabilirà in 45 minuti, la durata massima della Battaglia.
Nel 1672 fu stabilito il numero delle Compagnie in sei per Fazione, e dei Combattenti, che furono 320 per Fazione, e questo perché il Gioco era diventato un gioco di popolo, basti pensare che nel 1661 i Combattenti furono circa 600 per Parte; 1.200 uomini, compresi all’incirca tra i 18 e i 45 anni, rappresentavano senza alcun dubbio una grossa percentuale di coloro che potevano essere considerati abili al Gioco in Pisa e nel contado; proprio in quell’occasione, i disordini accaduti resero necessario l’intervento di truppe di soldati che impedirono, disperdendo la folla degli armati, un gioco che si presentava particolarmente fazioso e violento.
Il 2 marzo 1699 per accontentare 112 uomini esclusi dal Gioco, venne costruito un ponte in legno in piazza di Santa Caterina, qui vi si affrontarono due Compagnie di Tramontana, che avevano per impresa un crivello ripieno di soldati con le divise di Tramontana, per questo, questi Combattenti vennero chiamati Crivellati (Oplomachia Pisana 1713, pag. 96) e ancora nel 1705 fu fatta una Battaglia a Pontasserchio tra gli esclusi dalla Battaglia Generale.
I componimenti poetici d’occasione sono le testimonianze più frequenti della faziosità dei pisani nel Gioco, faziosità che sfocia in aperta derisione delle Compagnie avversarie: ad esempio i Leoni diventano tante pecoracce, i Dragoni sputano fiele o i calcesani (1661) temono che i Fulmini e i Dragoni gli scuotan la farina da’ giubboni, ma pure nello stesso anno i calcesani vengono definiti diavoli incarnati, oppure nel 1758 si dice che le schiere calcesane hanno nell’ossa il Gioco.
Questi componimenti, esprimono il carattere locale e l’esaurirsi della mal sopportata presenza Medicea nella organizzazione del Gioco, la rivalità tra le due Fazioni era talmente accesa, che in questo secolo le due Parti avevano perfino due diverse tipografie per stampare i loro poemi, Carotti per Tramontana e Bindi per Mezzogiorno.
Sebbene le spese per l’armamento delle Compagnie restassero soprattutto a carico della nobiltà che ricopriva i ruoli più importanti, l’abitudine secolare del Gioco condusse a possedere privatamente di che armare: poche sono quelle case, che di tali armi non abbiano, perché pochissimi sono quei pisani, che non abbiano giocato o che non giochino
La Faziosità si estendeva anche al contado, famosi sono gli scontri a targonate tra calcinaioli e pontederesi, divisi rispettivamente dall’amore per Tramontana e Mezzogiorno, addirittura Cascina, per molti anni armerà una propria Squadra, infine i contadini butesi erano soliti inchiodare il loro targone al cancello o alla porta di casa, per dimostrare che nessuno era in grado di fare prigionieri i butesi.
I Capitoli del 1726 ci fanno capire quali stratagemmi usassero i pisani per rendere i loro targoni più pericolosi, che non sia lecito usar targone ferrato, con trasforo, con maniglia in punta, con palla in cima del medesimo, e con punta acuta, ma nella forma solita con pena di scudi cento ai cittadini, et ai plebei di scudi venticinque, e due tratti di fune, arbitrio, e cattura (Rosselmini 1726)
Contemporaneamente al fissarsi sempre più preciso della regolamentazione assistiamo ad un organizzazione, anch’essa sempre meglio definita, del sistema di finanziamento del Gioco, nel 1732 si istituzionalizzano le contribuzioni, di albergatori, osti e bottegai, regolate, in proporzione all’utile ricavato, dal Giudice del Commissario.
Un’altra fonte di entrate, che si aggiungeva a quella delle collette pubbliche, era costituita dagli appalti per la costruzione e l’affitto dei palchi per gli spettatori, gestiti direttamente dalle Parti, mentre i contributi degli Aderenti alle Parti sono sempre più scarsi fino all’introduzione di rateizzazioni triennali, riscontrabili a partire dalle liste dei debitori delle Deputazioni.
Dal 1761 fu obbligatorio bollare a fuoco da parte del Commissario, tutti i targoni da Battaglia, questo però non fermò le astuzie e le irregolarità nell’uso del targone, nonostante la puntigliosa severità dei Bandi.
Nelle edizioni successive al 1761 si assiste infatti a una capacità minore da parte dei nobili di assolvere agli impegni finanziari riguardanti le spese generali per il Gioco e contemporaneamente a un aumento dei contributi dei cittadini e degli artigiani; i nobili pur continuando a gestire formalmente il Gioco non ne condizionano più in modo assoluto la sopravvivenza.
L’accentuarsi dei controlli di polizia sui Combattenti e sull’esecuzione del Gioco, e il carattere di repressione dei bandi, che si susseguono sempre più minuziosi nell’ultima fase della storia del Gioco, testimonia l’esistenza di una faziosità, documentata anche dalla registrazione di reiterati episodi di violenza.
Dai primi del secolo XVIII fino all’inizio del regno di Pietro Leopoldo (1765) il Gioco contava quasi trenta Battaglie; con l’avvento dei Lorena nel 1737, che abolirono pure il calendario pisano nel 1749, e soppressero l’Ordine dei Cavalieri nel 1750, il Gioco diventò triennale, conoscendo un periodo di crisi, che culminò nel 1767 anno in cui il Gioco sembrò terminare, difatti al termine della Battaglia, fu trovato morto un Celatino di Santa Maria, della Truppa di Calcinaia. 
Il Gioco e le feste ad esso collegate, costano sempre di più alla nobiltà pisana, che sembra non potere più gestire il Gioco; addirittura per ingraziarsi i favori dei Lorena, l’Aquila del Calcesana (oggi San Michele) divenne bicipite come quella asburgica e dopo una pausa forzata di nove anni, il Gioco riprenderà nel 1776 per terminare di nuovo, e questo perché, come spesso accadeva, il verdetto della vittoria non veniva accettato dall’altra Parte, e anche in questo anno vi furono incidenti tra i popoli delle due Fazioni, incidenti che vennero sedati faticosamente dalle truppe militari lorenesi.
In quegli anni, i cittadini partecipavano sempre di meno nel Gioco, difatti gli Ufficiali e i Combattenti venivano reclutati da ambo le Parti in Provincia, ognuna reclutava nella sua Parte, difatti nel 1776 si scriveva che: A Campo, a Buti, a Calcinaia scuole vi son, perché nell’uso del targone con poca spesa addottorar si suole (raccolta di componimenti poetici berneschi 1776)
Nel 1776 Giuseppe Della Seta Capitano Generale di Tramontana, probabilmente nel tentativo di accontentare e tamponare il Granduca, propose di ridurre il targone in maniera, che non si potesse tampoco dagli armati usare per la punta a due mani (ASP Fiumi e Fossi filza 1136) la punta doveva essere più larga e stondata, ma questa variazione di peso e forma non fu accettata dai pisani.
Nel corso del ‘700, ma soprattutto con l’avvento dei Lorena, la regolamentazione circa l’uso del targone si fece sempre più rigida, fu infatti vietato usare il targone come mazza, cioè impugnandola a due mani per la punta, che non poteva essere resa acuminata, in modo da non poter ferire gli avversari, venne proibito di lanciare il targone, e venne fatto divieto di praticare buche o di aggiungere maniglie per scoraggiare l’uso del targone come mazza, inoltre come già detto, non si poteva aggiungere maniglie o scavare buche nel targone, né aggiungere una palla in cima, né aggiungere ferro.
L’imposizione del Granduca Pietro Leopoldo di modificare peso e forma tradizionali del targone fu uno dei motivi che portarono i pisani allo scontro con il Granduca, che voleva il targone senza punta ne sopra, ne sotto, talchè non possa abbracciarsi con le mani, ne battere ad uso di mazza, o sivero adattarlo ed alleggerirlo in forma che non pesi di più delle cinque libbre, e prima di approvarsi il gioco ne venga trasmessa a Firenze una mostra.
Nel 1780 in occasione della visita di Pisa dell’Arciduca Ferdinando, fu fatta una dimostrazione con pochi uomini.
I pisani continuarono a voler combattere con i loro targoni, il 2 marzo del 1782, dopo una lunga preparazione per disputare il Gioco da parte dei pisani, la risposta dei Lorena fu che il targone dei pisani non andava bene e che dovevano accettare il nuovo modello fiorentino,  se desiderano di fare il Giuoco, restando nella loro libertà di non farlo.
Due giorni dopo, i pisani a nome delle due Parti, dichiarano che il nuovo modello di targone è pericoloso, con questo cercando di far cambiare idea a Pietro Leopoldo, che invece ordina che resti fermo di non più eseguire tal Giuoco né ora, né in avvenire. 
Il Gioco invece, riprenderà nel 1785, in occasione di una visita di reali, con una Battaglia castrata da troppe imposizioni e divieti, dal sapore più lorenese che pisana, dopo di che il Granduca vietò il suo svolgimento e il Gioco finì.
Pietro Leopoldo rivelò proprio nei riguardi del Gioco del Ponte, un atteggiamento di totale avversione, egli vedeva nel Gioco un’occasione di disordini, e di faziosità e lo considerava  strettamente legato agli interessi politici e culturali dell’aristocrazia cittadina: La frequenza del giuoco del ponte, dei partiti che nascevano dal medesimo, animavano nel popolo lo spirito di partito e di ferocia e dipendenza da certe famiglie, di gusto alle risse e seguitavano ad esser rozzi.
Con il Gioco del Ponte, la Pisa Repubblicana sconfitta nel 1509, si era servita dei  Medici e del Gioco, per creare un nuovo governo parallelo, nascosto e protetto nel Gioco e dal Gioco, per tornare così segretamente e simbolicamente, all’epoca della Repubblica Pisana, difatti il Gioco animava il popolo feroce e rozzo e lo legava a quelle famiglie di Armatori che al tempo della Repubblica avevano un certo peso nella vita economica e politica di Pisa e del suo contado.
Fu questo che capì e non sopportò Pietro Leopoldo, il Granduca si sentiva solo e snobbato, nonché pericolosamente messo in secondo piano dai pisani e da certe famiglie, come le definiva con disprezzo e forse anche con un po’ d’invidia.
La Battaglia Generale del 6 maggio 1807 durante l’occupazione francese, verrà definita Rievocazione, rivelando la distanza incolmabile che la separava dalla tradizione, la lunga sospensione di 22 anni portò a dimenticare le tecniche di Battaglia, si pensi che solo il 20% dei partecipanti di Mezzogiorno, risiedeva in Città, il Gioco perse così, la sua memoria e il suo radicamento nel tessuto cittadino.
L’epoca finalmente in cui vedrà Pisa rinascere il suo Giuoco del Ponte, quel grande e famoso spettacolo, unico avanzo in Europa degli antichi tempi cavallereschi, e che appellando a più remoti principi rammenta l’alta origine gloriosa della pisana Nazione; questa epoca felice e da voi già lungo desiderata, prodi e magnanimi Boreali, ormai s’avvicina. (Archivio Ruschi, filza 28 ins.808)
Grazie a collette effettuate in Città e in Provincia tra tutti gli strati della cittadinanza, si riuscì a rifare bandiere, targoni, tamburi, steccati ecc.
La Deputazione di Tramontana arruolò in campagna, presentandosi con pifferi e tamburi a Calcinaia, Colignola, Buti, San Giovanni alla Vena, Vicopisano, e naturalmente a Calci, i cittadini furono poco più di 70 per Parte, e quasi tutti nell’ufficialità, seppure anche lì non riuscirono a ricoprire tutte le cariche.
Il Gioco finì in Pace, ma come al solito le due Parti pretendevano la vittoria, fu così che ancora una volta, il Gioco provocò disordini in Città, la regina d’Etruria, Maria Luisa, si dimostrò interessata al Gioco, e disponibile a concedere il permesso di effettuarlo in futuro, anche se pare che abbia detto la famosa frase: come gioco è troppo e come guerra è poco.
Il ritorno dei Lorena e i successivi moti per raggiungere l’unità nazionale faranno cadere nell’oblio il Gioco del Ponte, anche se tanti pisani continuarono a pubblicare opere sul Gioco, come “il Gioco del Ponte,” nel 1877 di Tribolati, e “ricerche bibliografiche sul Giuoco di Mazzascudo o del Ponte di Pisa,” nel 1888 del Ferrari; solo nel 1860 ci sarà una Mostra delle Truppe in onore della visita di Vittorio Emanuele II.
La domenica 28 giugno 1896 ne Il Ponte di Pisa si legge che: il Ponte si passa ogni domenica. Il pedaggio costa un soldo. Con mazza e scudo prima si contendevano il Ponte: oggi, per averlo, basta lo scudo solo.
Si arriverà così al 1935 anno in cui, dopo ben 128 anni, per volontà del regime fascista, e del pisano Guido Buffarini Guidi, il Gioco riprenderà, inserito nel quadro di un generale recupero delle tradizioni storiche di alcune città italiane e ricollegato idealmente al passato glorioso di Pisa dominatrice dei mari.
Ad ogni Squadra venne abbinato un quartiere o una zona della Città, si crearono così le Magistrature, pur mantenendo le antiche denominazioni delle dodici Squadre; si decise anche di ritornare all’uso del targone, ma dopo altre due Battaglie, (30 maggio 1937 e 5 giugno 1938) guerra interruppe il Gioco.
Esigenze spettacolari vollero che al Corteo venisse attribuita una importanza maggiore rispetto che alla Battaglia, i costumi vennero erroneamente ricostruiti in stile spagnolesco, come andava di moda alla fine del 1500, poiché questa epoca costituiva il periodo iniziale del Gioco del Ponte, ed aveva visto la ripresa della Città sotto Cosimo I dei Medici, mentre furono utilizzati i disegni settecenteschi per le bandiere.
La Battaglia era approssimativamente corrispondente all’incirca agli inizi del 1700, si ottenne così un’immagine astratta del Gioco del Ponte, ma anche si arricchì il suo significato, ricollegandolo giustamente al passato di Pisa marinara.
Le dodici Squadre, ciascuna composta da venticinque Combattenti, rappresentavano, a differenza del passato, altrettanti quartieri della Città o sobborghi, l’arruolamento fu basato sulla suddivisione in rioni, a cui facevano capo i gruppi rionali fascisti.
Le modalità della Battaglia presentavano un misto di fedeltà all’antico e di adattamento: erano conservati alcuni elementi, come l’abbigliamento e l’armamento dei Combattenti, ma variò la forma del combattimento, difatti furono adottate regole che non consentissero di correre gravi rischi fisici.
Dalla Battaglia Generale del 1937 scomparve ogni traccia delle tattiche settecentesche: scopo del Gioco era la conquista di piccoli stendardi che rappresentavano le Squadre rivali.
L’arruolamento dei Combattenti spettava ai gruppi rionali fascisti dei diversi quartieri, i cui fiduciari ricoprivano il ruolo di Capitano di Squadra, e le Deputazioni Parziali erano composte quasi totalmente dai quadri del partito, organizzazione che garantiva il controllo della manifestazione, ed assicurava, basandosi sulla gerarchia e disciplina del partito, la pronta esecuzione degli ordini; ma la seconda guerra mondiale fece cessare di nuovo il Gioco.
Nel dopoguerra il Gioco del Ponte riprende il 13 luglio 1947, per volontà e merito dell’allora Sindaco Bargagna, ma il Gioco subì notevoli modifiche, le più evidenti e dannose furono la cessazione dello scontro con il targone, sostituito dal carrello (inventato da Ferruccio Giovannini) e il frazionamento della Battaglia in cinque combattimenti, tanti quante erano le Squadre.
Per Mezzogiorno: Porta a Mare (con la bandiera dei Delfini) Porta Fiorentina (Leoni) Sant’Antonio, San Marco e San Martino(eliminato il bianco da entrambe le sopravvesti); per Tramontana: Santa Maria, San Francesco (con la bandiera del San Michele, sostituendo il rosso con l’arancio) Porta a Piagge (bianco celeste con un angelo con una tromba come Impresa) Porta a Lucca (giallo scuro con un Mattaccino come Impresa) e Porta Nuova (giallo e verde con un Satiro come Impresa) si stravolsero completamente i nomi, i colori e l’imprese delle antiche Compagnie.
Inoltre venne inventata una antistorica Battaglia dei Celatini, prima dei combattimenti al carrello, il Gioco venne disputato all’Arena Garibaldi e finì in Pace, perché al terzo combattimento, sul 1 a 1 il carrello si bloccò, e non fu più possibile combattere. 
L’ingiusta esclusione di Calci portò ad una protesta dei calcesani che il 12 maggio del 1950 rubarono le bandiere del Gioco alla Città, bandiere che vennero restituite dai calcesani perché ottennero di partecipare alla Marcia con quindici uomini in costume storico, rinviando al futuro, l’armamento della Compagnia di Calci. 
Il Gioco si disputò nel 1950, ed annualmente dal 1952 al 1963, cinque combattimenti assegnavano la vittoria alla Parte che si aggiudicava il maggior numero di scontri, una Squadra per Parte, sorteggiata, non partecipava al Gioco.
Vennero creati il Consiglio degli Anziani e la Società Storica del Gioco del Ponte, come organi di organizzazione e tutela del Gioco, che l’8 giugno 1950 tornò a disputarsi sul Ponte di Mezzo, il carrello di ferro, scorreva su una rotaia lunga 19 metri, le cinque Squadre di ogni Fazione, erano composte da 24 Combattenti, disposti su tre file, all’interno del carrello, spingendo frontalmente sui tubi di questo; lo stesso giorno vi fu anche la Marcia delle Truppe, visto che i costumi e il materiale del Gioco, erano stati nascosti, durante la guerra, sotto la cupola del Battistero.
Le denominazioni delle Squadre si identificavano con quelle dei quartieri cittadini e delle località periferiche, e subirono ulteriori cambiamenti: per Tramontana: San Francesco, (con la bandiera di San Michele) Porta Nuova, (con la bandiera dei Satiri) Santa Maria, San Michele, (con la bandiera del Calcesana) Porta a Lucca, (con la bandiera dei Mattaccini) e Calci che non combatteva, ma partecipava al Corteo dei Giudici; e per Mezzogiorno: San Martino, San Marco, Porta Fiorentina, (con la bandiera dei Leoni) Sant’Antonio, Marina, (con la bandiera dei Delfini) e San Piero che non combatteva, ma partecipava al Corteo dei Giudici, con la bandiera dei Dragoni.
Venne inventata una specie di Cerimonia dell’Attacco del Cartello prima della Battaglia, il tutto al suono “suggestivo e storico” degli altoparlanti! così facendo la Battaglia venne ridicolizzata e stravolta, mentre il Corteo venne riempito nel corso del novecento, da figuranti inventati di sana pianta, che non avevano niente a che vedere con la storia del Gioco e di Pisa.
Il Gioco del Ponte diventò una pagliacciata e perse completamente la propria anima, difatti cessò nuovamente nel 1963 tra l’indifferenza più totale della popolazione, anche se allora si dette la colpa al mancato rifacimento dei costumi storici.
Solo pochi pisani sperarono che il Gioco riprendesse, difatti nel 1970 nacque per volontà di (Fichi, Tornar, Franceschi) l’Associazione Amici del Gioco del Ponte, si arriverà così al 28 giugno 1981 quando venne organizzata una Marcia che parti da piazza del Duomo e attraverso gran parte della Città, vi fu anche una Benedizione delle bandiere, il grande interesse suscitato tra i pisani, indusse il Comune a riproporre il Gioco l’anno successivo.
La maggior parte dei pisani cultori del Gioco, volevano ritornare all’uso del targone, fu così che si provò alla Cittadella, tra vecchi Capitani e Combattenti del carrello, ma fu una prova negativa perché lo scontro venne disputato con attrezzature non idonee e modalità di combattimento effettuate da uomini del tutto impreparati.
Le Squadre erano formate da 15 Combattenti, disposti tre per fila, essi dovevano spingere all’interno di un corridoio delimitato da parapetti; gli uomini della prima fila erano muniti di targone e corazza, mentre quelli delle altre file erano muniti solo di morione ed esercitavano la loro spinta sulle spalle dei propri Combattenti.
Fu così che si optò nuovamente per il carrello, e in un clima di grande euforia ed inserito nel Giugno Pisano, il Gioco riapparve nel 1982 con le stesse modalità sbagliate di venti anni prima, unica novità, le Squadre tornarono ad essere sei come in antico, addirittura la bandiera di Calci affidata al Calcesana, sarà bianca rossa e verde, e non più bianca dorè e verde, ecco forse perché fino ai primi anni del duemila, la bandiera utilizzata nel Gioco da Calci aveva le sfere rosse invece che dorate.
il carrello permetteva la spinta di 20 Combattenti, 10 per lato, la base del carrello fu rialzata fino al livello delle spallette del ponte, per consentire una migliore visibilità della Battaglia da parte degli spettatori.
Il resto è storia recente, dall’introduzione delle Squadre chiuse, (1985) alla spinta di schiena, (1987) il Gioco si è completamente snaturato, e ha perso nuovamente d’interesse e ormai da anni è vicino alla scomparsa definitiva, anche se ci sono stati dei miglioramenti con la riammissione di Calci nel 1990, l’abolizione della bella nel 1996 e la riduzione dei combattimenti da sei a tre nel 2002.
Tentativi di regolamentazione e di statuti sono andati tutti falliti negli anni 90 perché ormai nessuno serviva più il Gioco, ma bensì tutti se ne servivano per ritagliarsi egoisticamente una fetta di improbabile, misera ed effimera popolarità.
Nel 2003 l’Amministrazione Comunale di Pisa aprì un dibattito sul Gioco e accettò la presentazione di progetti tesi a migliorarlo, che furono 11, ma solo il progetto denominato Il Targone presentato dalla Compagnia di Calci e dagli Amici di Pisa considerò l’argomento Gioco, come un qualcosa da recuperare nel suo insieme; ma il progetto finì in fondo ad un cassetto.
Nessuno degli altri progetti si preoccuparono di recuperare le antiche tecniche di battaglia, le antiche cerimonie del Gioco, e così non si frenò il disinteresse dei pisani e di conseguenza delle Istituzioni, difatti nel 2005, ebbe luogo solo la “Sfilata” pallido ricordo della Mostra o Marcia, mentre il combattimento non avvenne per l’ammutinamento della Parte Australe.
Nel 2006 vennero abolite le Magistrature, con i Combattenti costretti a marciare sui Lungarni con sopravvesti dei “colori della Parte” ovvero: bianco blu per Tramontana, al posto dell’antico dorè e bianco rosso per Mezzogiorno, al posto dell’antico rosso vermiglio, con il Corteo ridotto e ancora di più stravolto, con i combattimenti portati a 2 più 1 eventuale spareggio in caso di parità, sempre con il carrello, sempre con la spinta di schiena.
Probabilmente se il Gioco avesse avuto continuità nei secoli e se non fosse stato ucciso da Pietro Leopoldo d’Asburgo Lorena e stravolto completamente nel novecento, oggi il sentimento d’appartenenza ad una Parte sarebbe sempre vivo, così come gran parte della nostra coscienza storica.
Oggi sopravvive tra i falegnami del Monte Pisano, nel piano di Pisa, in Valdera e nelle colline pisane, un modo di chiamare Targone, una tavola larga almeno 30cm e lunga almeno 100cm e spessa almeno 2,5cm, sono grosso modo le misure che tutti i falegnami pisani hanno impresse nella mente, pur non sapendo che erano le misure da cui si ricavava un targone da Gioco.
E’ l’unica memoria che è sopravvissuta dell’antico Gioco del Ponte, in maniera inconscia, grazie ai falegnami pisani, che anticamente ben sapevano come si ricavava un targone da Gioco da una tavola di legno.